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Nonostante il continuo richiamo all’influenza del neorealismo italiano sul cinema iraniano degli anni Sessanta e Settanta, in Italia la cinematografia iraniana è rimasta sconosciuta al grande pubblico fino a tempi molto recenti. Un delizioso ed ironico cortometraggio di Nanni Moretti girato nel 1996 descrive perfettamente l’ansia di un temerario esercente che a Roma decide di proiettare nel proprio cinema un film iraniano, per di più in lingua originale con sottotitoli. Il film in questione è Close Up di Abbas Kiarostami, regista celebrato quale icona del cinema iraniano di qualità, che l’anno successivo sarà premiato a Cannes con la Palma d’Oro per il bellissimo Il sapore della ciliegia. Alla prima di Close Up, che Moretti effettivamente ospitò presso il cinema Nuovo Sacher, assistettero solo 12 spettatori, diventati 57 alla fine delle quattro proiezioni previste. Nel 2000, l’assegnazione a Venezia del Leone d’Oro al film Il Cerchio di Jafar Panahi suscitò l’interesse della nostra stampa, ma i film iraniani rimasero ancora per parecchio tempo confinati ai cinema d’essai per un pubblico di raffinati amatori o, talvolta, di persone interessate a capire cosa stesse succedendo in quel lontano paese.

 

L’Iran rivoluzionario, messo al bando dalla comunità internazionale nel 1980, in seguito all’assalto dell’ambasciata americana e al sequestro del suo personale diplomatico (episodio celebrato da diversi film di produzione USA fino al celeberrimo e molto poco veritiero Argo di Ben Affleck), incuriosiva sia chi era fermamente convinto dell’oscurantismo degli ayatollah, sia chi cercava di capire l’evoluzione interna di un Paese che pur essendo governato da una dirigenza islamica presentava tratti di indubbia modernità, soprattutto nel campo della produzione artistica a partire proprio dal cinema. Il successo internazionale di Persepolis, il film di Marjane Satrapi e Vincent Peronnaud, seguito da quello de I Gatti Persiani di Bahman Ghobadi – film che narra le peripezie di una rock band underground con un finale tragico particolarmente adatto a suscitare commozione e indignazione – ed infine l’exploit di Una separazione, capolavoro di Asghar Farhadi che guadagna una messe di premi, tra cui l’Oscar 2012 quale migliore film straniero, spalancano finalmente anche in Italia al cinema iraniano il cuore del pubblico e le porte delle grandi sale cinematografiche.


Festival importanti, come Asiatica Film Mediale a Roma, Religion Today a Trento, Middle East Now a Firenze dedicano ai film iraniani spazi sempre più ampi, riconoscendo il valore di una cinematografia vivace che affianca a prodotti per così dire di “largo consumo” pellicole di alta qualità tecnica ed espressiva, i cui contenuti rispecchiano con puntuale evidenza l’evoluzione della società iraniana. Una società, è bene ricordare, lontana dagli stereotipi correnti in Occidente che oscillano tra l’immagine di un paese dominato da religiosi barbuti e donne avvolte in chador neri e quello di masse in cerca di facile divertimento, festini a base di alcol e droghe, visti per scappare all’estero. Al contrario, osservandola da vicino, o anche solo attraverso lo sguardo rivelatore del cinema, la realtà iraniana appare caratterizzata da un notevole dinamismo, presente in tutti gli strati della società. I giovani, tra i quali le donne costituiscono la maggioranza, sono istruiti, inseriti nel flusso dell’informazione globale, curiosi di quanto accade altrove, connessi al mondo attraverso i mezzi di comunicazione di massa che utilizzano aggirando le tante limitazioni messe in atto da un potere politico che cerca di controllarne la forza e la voglia di cambiamento. Soprattutto, sono consapevoli delle conquiste ottenute attraverso la rottura drammatica con il passato e i sacrifici richiesti dalla guerra, ma nello stesso tempo fermamente intenzionati a guadagnare gli spazi di libertà sociale e di azione politica propri di una società progressista. Le contraddizioni sono esposte alla luce del sole e affrontate nel quadro di una contrapposizione politica, sociale, culturale e soprattutto generazionale che ha conosciuto momenti di duro confronto e che lascia oggi sperare in un cambiamento progressivo e duraturo.


A questa consapevolezza il cinema ha dato un contributo decisivo, riflettendo puntualmente tutte le trasformazioni sociali che il paese ha attraversato. Spesso le ha addirittura anticipate, cogliendo bisogni talvolta non ancora espressi apertamente. E’ successo nel passato per il ruolo della donna, succede oggi nella descrizione di una società urbanizzata in cui l’alienazione dell’individuo è in agguato tra i grattacieli e le auto di lusso che popolano il nuovo immaginario cinematografico. Introdotto nel paese agli inizi del Novecento da un sovrano, per il proprio personale diletto, in un periodo particolarmente buio della storia nazionale, mentre le potenze occidentali si disputavano i resti di un grande impero e i nascenti profitti del petrolio, il cinema in Iran è stato da subito identificato con il modernismo di stampo occidentale ritenuto una minaccia per i valori tradizionali e la morale religiosa islamica. Inevitabile, quindi, la reazione negativa dei ceti più tradizionali e degli ambienti religiosi che hanno cercato di ostacolarne la diffusione. Una situazione di conflitto ancora oggi non risolta che non ha comunque impedito alle autorità politiche passate e attuali di cercare di sfruttarne il potenziale per i loro fini.

 

Dopo un primo periodo di produzione di pellicole minori, realizzate per lo più in India a causa della mancanza di strutture adatte in Iran, l’occupazione alleata nel 1941 determinò una svolta importante nello sviluppo di una cinematografia nazionale, a carattere prevalentemente propagandistico. Alla fine della seconda guerra mondiale, con l’inizio del regno di Reza Mohammad Pahlavi, il sovrano destituito nel 1979, si afferma la produzione di un genere cinematografico locale, di natura essenzialmente commerciale, conosciuto come film farsi (film persiano), i cui elementi apparivano sempre gli stessi: storie d’amore costellate di tradimenti, inganni e ostacoli di varia natura, il tutto condito da danze, musica, canzoni eseguite da note cantanti dell’epoca, la cui presenza nel cast garantiva un sicuro successo commerciale. Questo genere, rivisto e aggiornato, sopravvive anche nella produzione attuale per lo più sotto forma di commedia popolare, dalla vita breve ma dagli incassi sicuri. Le trasformazioni degli anni ‘50 e ‘60, durante i quali lo shah cerca di imporre alla società iraniana un modello occidentale, incontrano l’opposizione non solo degli ambienti religiosi ma anche degli intellettuali di sinistra da cui provengono i primi registi impegnati. Nel 1963 un film iraniano viene finalmente presentato al festival di Cannes. Pochi anni più tardi, la presenza iraniana in questo e in altri festival internazionali diventa stabile. Si afferma un  uovo genere cinematografico, più intellettuale ma anche più variegato rispetto ai clichés del film farsi. Il principale esponente di questo nuovo cinema è Ebrahim Golestan, considerato insieme alla poetessa Forugh Farrokhzad, autrice del celebre La casa è nera, il fondatore della cinematografia moderna iraniana. Come c’era da aspettarsi, questi film non incontrano grande consenso da parte del pubblico, probabilmente a causa del complesso linguaggio simbolico che li contraddistingue, decisamente lontano dalla cultura cinematografica degli spettatori iraniani dell’epoca. Maggiore fortuna incontra un terzo genere che si afferma verso la fine di questo stesso periodo, non commerciale ma nemmeno elitario, intellettuale perché opera di registi impegnati, ma orientato verso tematiche sociali fortemente sentite e l’esternazione del disagio sociale che stava aumentando rapidamente in tutto il paese. La consacrazione di questo cinema, definibile “progressista”, avviene con il notissimo La vacca di Dariush Mehrjui.

 

Prende così il via la prima nouvelle vague iraniana. La seconda si affermerà negli anni ‘90, dopo il decennio di stasi indotto dalla Rivoluzione islamica. Tra il 1960 e la prima metà del 1970, cresce in Iran anche l’influenza delle cinematografie straniere, in particolare di quella francese e italiana. Quest’ultima porta sia la semplicità e l’umanità dell’approccio neorealista, la cui influenza diventerà evidente soprattutto nel cinema post-rivoluzionario, sia una vera e propria invasione di pellicole di bassa qualità, dal contenuto spesso volgare, che suscitano l’indignazione dei ceti conservatori e dei religiosi.

 

La minaccia proveniente dall’Occidente alle basi morali della società si fa agli occhi di gran parte della popolazione sempre più concreta. Quando anche la situazione economica e quella dei diritti si farà insostenibile e la Rivoluzione irromperà scardinando l’ordine precedente, l’ayatollah Khomeini dichiarerà in un celebre discorso di non avere nulla contro il cinema ma che bisogna sradicare la corruzione in esso presente prima che avveleni l’intera società.
Nel disorientamento generale del primo periodo rivoluzionario, il cinema sembra quasi sparire dalla scena. I registi e gli attori più compromessi con il precedente sistema lasciano frettolosamente il paese, alcuni per non farvi più ritorno. Una buona parte delle sale cinematografiche viene distrutta, altre vengono semplicemente chiuse. La televisione pubblica trasmette programmi di propaganda, sermoni religiosi, inni rivoluzionari. Le autorità sono però ben coscienti dell’utilità del cinema per la formazione della nuova identità islamica richiesta dalla Rivoluzione e dopo una “rivoluzione culturale” che stabilisce i contenuti e le forme che la produzione culturale dovrà avere, il cinema può timidamente ripartire. La ripresa è inaspettatamente accelerata dallo scoppio della guerra Iran-Iraq. La necessità di documentare l’immane sforzo bellico prontamente messo in atto per contrastare la superiorità dell’esercito nemico e l’esigenz di disporre di materiale propagandistico per rinsaldare il nazionalismo e spingere migliaia di persone al martirio in nome della patria, favoriscono infatti la nascita del cosiddetto “cinema di guerra”, prima sotto forma di produzione di documentari e successivamente di lungometraggi inseriti nel filone della “sacra difesa”.

 

Nel 1982 viene fondato il Ministero della Cultura e della Guida islamica guidato dal futuro presidente riformista Mohammad Khatami, all’epoca solo un religioso di larghe vedute. Khatami avvia immediatamente una politica di sostegno al cinema che passa attraverso varie strategie: la creazione di un’agenzia semi governativa incaricata di promuovere il cinema iraniano all’estero, l’avvio di un Festival Internazionale del cinema (Festival di Fajr), l’incoraggiamento di investimenti privati e lo stop all’importazione di film stranieri. Queste misure stimolano la produzione interna e spingono i registi ad elaborare un nuovo linguaggio cinematografico che trova nell’utilizzo dei bambini quali protagonisti e nell’ambientazione in ambito rurale una strategia di sopravvivenza presto trasformatasi in poetica distintiva del nuovo cinema iraniano. Il successo del film Il corridore di Amir Naderi nel 1985 a Cannes e il fenomeno Kiarostami – che aveva iniziato la sua attività nel periodo precedente la Rivoluzione ma che firma in questi anni i suoi maggiori successi - riportano il cinema iraniano sulla scena internazionale e aprono la strada a una nuova stagione di riconoscimenti.


La fine, nel 1988, della lunga guerra con l’Iraq segna la consacrazione di alcuni dei registi che avevano operato nell’ambito del cinema di guerra e l’affermarsi di nuovi nomi che di lì a poco diverranno familiari anche all’estero. Inoltre, dopo un decennio in cui le donne erano state emarginate sia come attrici che come protagoniste delle storie raccontate per evitare di incappare nelle rigide norme della censura che prevedevano addirittura il ricorso al velo anche nel privato delle case e nessun contatto fisico tra uomo donna, i ruoli femminili riprendono quota e alcune donne si posizionano perfino dietro la macchina da presa, come registe, produttrici, scenografe. Tra i vari nomi spiccano Tamine Milani e Rakhshan Bani-Etemad, che segneranno il corso della cinematografia degli anni a venire influenzando, in direzione di un maggiore realismo e di un’attenzione particolare per le tematiche di genere, alcuni colleghi come Dariush Mehrjui e il più giovane Jafar Panahi. Rakhshan Bani-Etemad, in particolare, dimostra un interesse per gli emarginati e le storie di miseria urbana che contribuisce a riportare l’attenzione del cinema sulla città per eccellenza, la smisurata e spietata Teheran. L’ambientazione rurale, a tratti idilliaca dei film precedenti, lascia via via il posto alla società urbanizzata, percorsa da tensioni e contraddizioni che derivano ancora una volta dal conflitto tra modernità e tradizione. A differenza di quelli che hanno scelto di vivere all’estero, i registi rimasti in Iran sono testimoni diretti dell’evoluzione della società, del passaggio ad un modello di vita che spinge per l’affermazione dell’individuo a detrimento del modello familiare allargato e della morale tradizionale, e si impegnano a narrarne le dinamiche. La scommessa è quella di riuscire a farlo senza oltrepassare le linee rosse poste dal governo o magari forzando solo quel tanto che permette comunque di continuare a lavorare. è un lavoro di cesello, di espedienti per aggirare i divieti, di trovate filmiche che diventano genere: tutto pur di permettere al cinema di continuare a crescere.

 

La relativa libertà di espressione conquistata negli anni della presidenza Khatami, durante i quali si assiste al paradosso di film proibiti all’interno da censori ostinatamente reazionari, ma incoraggiati a presentarsi ai festival internazionali con celebrazione ufficiale dei premi eventualmente ricevuti, crea ad un certo punto la tipologia del regista “resistente” che sembra quasi lavorare per l’estero, con film che ammiccano alle aspettative e agli stereotipi del pubblico dei festival. Si tratta di una scelta minoritaria, spesso bollata dagli iraniani come opportunista, ma che ha il merito di aprire un dibattito sulla libertà di espressione, di cui beneficia l’intera società e l’immagine stessa del cinema iraniano.

La capacità di porsi al di fuori di queste due categorie realizzando film dalla forte valenza artistica che raccontano le contraddizioni della società iraniana attuale senza travalicare le limitazioni della censura, ha decretato nel 2011 il successo planetario, è il caso di dirlo, di Asghar Farhadi, regista già molto noto in Iran per i suoi film precedenti. I numerosi premi, tra
cui l’Oscar per il miglior film straniero attributi al suo Una separazione, segnano nel 2012 l’inizio di una nuova fase del cinema iraniano, sicuramente la più interessante, per lo spettatore straniero, della lunga storia qui riassunta. Il cinema diventa strumento di approfondimento etico, di costruzione di una nuova umanità che si basa sulla capacità degli individui di osservare la realtà intorno a loro, di scegliere e di assumersi la responsabilità delle proprie azioni. I due prestigiosi riconoscimenti che Farhadi ha ottenuto di recente a Cannes per il suo nuovo film confermano l’apprezzamento del pubblico e della critica per un cinema dove la denuncia non è urlata, ma proposta nelle pieghe della narrazione, senza nessuna contrapposizione rigida tra “noi” e “loro”. Seguendo il suo esempio, la nuova generazione di registi che opera oggi in Iran si sente finalmente libera di raccontare storie che parlano persiano, che traggono ispirazione dal vissuto della società e della cultura iraniana senza necessariamente dover rendere conto del bene e del male del sistema politico, del sistema religioso, delle contraddizioni, dei paradossi, delle ingiustizie e delle disuguaglianze che la Storia ha messo loro davanti. E di raccontarle bene, con un gusto per i dettagli formali, per l’atmosfera, per l’estetica complessiva che si fa sempre più raffinato e testimonia la maturità acquisita negli anni a dispetto di tutte le limitazioni, le censure e gli ostacoli.


La selezione che Academy Two propone ha il merito di portare in Italia tre titoli della recentissima cinematografia iraniana e uno della diaspora, presentati nei più prestigiosi Festival internazionali. In ordine cronologico essi sono:
A girl walks home alone at night di Ana Lily Amirpour
Nahid di Ida Panahandeh
Un mercoledì di maggio di Vahid Jalilvand
A Dragon Arrives! di Mani Haghighi
Due registe, due registi. Tre straordinarie opere prime ed una conferma.
Sono opere diverse tra loro, per linguaggi e temi, accomunate comunque dalla lezione appresa dal grande cinema d’autore, sia esso straniero, come nel caso del film della Amirpour, o iraniano, per gli ultimi tre. Influenze provenienti dall’esterno, in particolare dell’amatissimo neorealismo italiano, emergono comunque anche nel caso di questi tre film.

 

Particolarmente evidenti, ad esempio, esse sono in Un mercoledì di maggio: un affresco di umanità dolente, abbandonata a se stessa, che lotta disperatamente per la sopravvivenza in una città dove, lo sappiamo da altri fonti, il tenore di vita ha ormai raggiunto livelli di opulenza occidentale. Il film va però oltre l’affresco sociologico e scava invece dentro le ragioni intime che hanno portato il protagonista ad un gesto che sembra essere di pura filantropia e che invece, lo scopriremo dopo, è anche altro.

 

In Nahid, il film di Ida Pahanandeh che in molti si sono affrettati a qualificare come “femminista”, il tema che prevale è sì quello della lotta di una donna coraggiosa che cerca di difendere le sue scelte dalle imposizioni di una società maschilista e patriarcale ma, come la regista tiene a sottolineare, è innanzitutto la storia di una donna, di quella donna, di quella condizione sociale, in quella cittadina. Nahid lotta per se stessa, non è un simbolo di tutte le donne iraniane. Un film che pretende di dire tutto su un Paese – ripete ancora la regista – non può che fallire nel suo compito perché la realtà è complessa e un regista non può che coglierne un brandello. Per fortuna, il cinema iraniano si è ormai liberato della necessità di essere ogni volta il riflesso dell’intera società.

 

Ogni regista sceglie un aspetto, un’angolazione, una storia piccola o grande come sono piccole o grandi e diverse le storie di tutti e la rappresenta con la sua visione della vita, con la sua scelta cinematografica. è il caso ad esempio del film di Mani Haghighi A Dragon Arrives!, non paragonabile a nessun film iraniano sinora visto, né al cinema problematico e impegnato di un Makhmalbaf, di un Kiarostami o di un Panahi, né al cinema borghese-urbano di Farhadi. Siamo in territori nuovi e spiazzanti, ad un uso del linguaggio cinematografico rutilante, denso di citazioni di generi e di stili che provengono da una grande cultura visiva internazionale e da una tradizione mitologico-simbolica tra le più ricche al mondo.


Di altro genere il film di Ana Lily Amirpour: ambientato in un luogo senza tempo, in un bianco e nero anamorfico, e con lo stile di una graphic novel. Qui le influenze sono altre: è come se Sergio Leone e David Lynch fondassero una band iraniana di bambini che suonano rock e Nosferatu fosse chiamato a fargli da baby sitter. L’Iran c’è ma è un’eco lontana, rappresentata da un chador nero che svolazza come le ali di un pipistrello. Quel chador che continua ad agitare gli incubi di chi ha lasciato l’Iran tanti anni fa, al momento della rivoluzione, e che la società iraniana ha invece idealmente rimosso per andare avanti oltre confini che il cinema potrà aiutare a conoscere.

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Testi a cura di
Felicetta Ferraro
Esperta di storia, società e cultura dell’Iran
Presidente dell’Associazione Ponte33

IL CINEMA IRANIANO

TRA PASSATO E PRESENTE

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